Cultura

“Lettera d'amore a Cremona”: il racconto di Andrea Cisi contributo all’antologia letteraria “Reboot”’

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Andrea Cisi, cremonese classe 1972, metalmeccanico per professione e scrittore per passione, con il racconto “Lettera d’amore a Cremona” -riportato integralmente alla fine di questa intervista per la gentile concessione dell’ideatrice e dell’editore- ha aderito assieme al altri ventuno tra scrittori, poeti, giornalisti e blogger, al progetto “Reboot” , alla raccolta ideata da Annarita Briganti giornalista per Repubblica e Donna Moderna, scrittrice, traduttrice, attivista ed animatrice culturale. Le opere hanno come comune denominatore testimonianze, emozioni e speranze legate a Milano nel periodo di lockdown. I proventi di questo eBook, che si potrà acquistare e scaricare su Amazon e sul sito di Bookabook -che ne ha curato l’edizione e la distribuzione- saranno devoluti in beneficenza al Fondo di Mutuo Soccorso del Comune di Milano.

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Fanno parte di quest’opera la stessa Briganti, Andrea Cisi, Lorenzo Beccati, Paolo Bianchi, Luisa Ciuni, Piero Colaprico, Isabella Fava, Felice Florio, Pierfrancesco Majorino, Lapo Mazza Fontana, Giorgia Messa, Eleonora Molisani, Montel, Elena Mora, Davide Mosca, Francesca Noè, Manuela Porta, Giulio Ravizza, Sara Recordati, Micol Sarfatti, Nicoletta Sipos e Jacopo Tondelli.

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Andrea Cisi ha pubblicato, oltre a racconti contenuti in varie antologie, i romanzi ‘Così come viene‘(Transeuropa 2000), ‘Aye. Are You Experienced? ‘(Bevivino/Convegno 2003), e ‘Cronache dalla Ditta ‘(Mondadori 2008) , ‘Meterra’ (Mondadori 2011) e ‘La piena’ (Minimum fax 2016) .
Nel 2003 ha vinto il concorso milanese Subway-letteratura e nel 2006, in collaborazione con l’illustratrice Margherita Allegri, ha vinto il concorso ‘Andrea Pazienza’. Il suo racconto ‘Un pomeriggio allo Zini ‘ è parte dell’antologia ‘Ogni maledetta domenica’ (Minimum Fax 2009).

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Cremona, città in cui vive e lavora, è parte integrante dei suoi racconti e dei suoi romanzi, i personaggi attraverso le sensazioni ed i sensi, disegnano e colorano gli sfondi delle storie, permettendo al lettore di entrare e muoversi attraverso di esse, incrociando i protagonisti e magari riconoscendosi in parte del loro vissuto.

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“Lettera d’amore a Cremona” prende spunto dall’immagine che ha commosso e scosso tanta gente durante l’emergenza Covid 19, quella di Elena Pagliarini, l’infermiera stremata con il capo adagiato sulla tastiera di un computer in reparto all’Ospedale di Cremona.
Un ospedale cittadino, che come tanti altri, è diventato simbolo di una città martoriata e messa in ginocchio da un maledetto virus invisibile e spietato, fuori solo il rumore continuo delle sirene delle ambulanze, dentro una guerra cruenta, impari e senza tregua.
Leggendo il racconto si ha l’impressione che l’autore si materializzi e si muova alle spalle di Elena, ridando vita e colori a quell’immagine monocromatica e drammatica, attraverso lo scorrere delle sue parole.
“In senso figurativo la parola ‘sogno’ indica speranza, o desiderio vano e inconsistente. Ma Elena non lo può sapere, che ciò che sta vedendo al di qua degli occhi chiusi si è ridotto a termine di ‘speranza’. Lei vede ancora le giornate migliori, quelle in cui non c’era la paura, quelle piene di cose da fare, tutte diverse. Elena non riesce a capire, adesso, al di qua degli occhi chiusi, se la Cremona che sta guardando è quella di ieri o è quella di domani.”

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- Come sei stato coinvolto in questo progetto?
Mi ha chiamato Annarita e me lo ha chiesto. Anna è un’amica cara conosciuta quasi per caso, organizzando la prima edizione del Porte Aperte Festival nel 2016 e coinvolgendola in una conduzione, e poi anche in varie presentazioni dei suoi libri all’Antica Osteria del Fico, dove collaboro con Mario Feraboli nella organizzazione di ‘Leggere è Fico’, una rassegna ormai consolidata. Col suo lavoro e la sua passione per Milano e per la letteratura, Annarita ha pensato di poter sposare necessità e passione, e ne è nata questa antologia da lei curata. All’inizio ho avuto qualche dubbio, unico ‘esterno’ in un’antologia di racconti su Milano. Ma lei è stata molto coinvolgente. Ci ha messo poco a convicermi. 


- Come mai la scelta di inserire un racconto su Cremona in una raccolta che racconta di Milano e cosa ti ha portato a scegliere l’immagine di Elena come spunto al tuo lavoro?
Anna mi ha chiesto di partecipare perché apprezza il mio modo di scrivere e sa quanto fascino Milano esercita su di me. Voleva che la mia voce appartenesse all’iniziativa. Inizialmente non avevo idee. Poi ho rivisto per caso la foto di Elena mentre sentivo scorrere le note di Gabriel’s Oboe suonato da Lena Yokoyama dal tetto del Maggiore. L’intuizione è venuta lì. Non poteva essere altro.


- “Elena dorme. La testa poggiata sulla scrivania. Ore 6 del mattino. I guanti in lattice ancora indossati, la mascherina sul viso, il camice stretto attorno al corpo stremato, abbandonato sulla sedia, dove pensava di fermarsi solo un istante, per riposare, e scrivere […] Non era riuscita a terminare la lettera. A metà testo era crollata. Elena sta sognando, ora.“
In questo racconto accompagni il lettore nel sogno di Elena tra ricordi, riflessioni, luoghi e persone. Prima di scriverlo hai avuto modo di parlare della sua esperienza in ospedale durante l’emergenza?
No. Non la conoscevo. Ho scritto il pezzo inserendo esperienze mie personali ed esperienze solo ‘immaginate’ che potessero riguardarla, ispirate dalla foto. Ho cercato di immaginare come potesse essere nel privato. Poi l’ho contattata per aver l’okay a usare il suo nome e così ci siamo conosciuti. Ho scoperto solo dopo che l’aveva letto che l’aveva divertita il modo in cui sono riuscito a descriverla completamente all’opposto. A volte mi capita di vedere le cose al loro esatto contrario. Un disastro. :-)

- Nel romanzo ‘La piena’, il personaggio del ‘Vader’ -il padre di Umberto- si ammala di polmonite bilaterale virale H1N1, ne segue il ricovero, le cure ed il peggioramento fino alla morte. Una scelta retorica casuale, ma hai provato a rileggerla?

No. Non rileggo mai quello che scrivo, dopo che è stato pubblicato.

- La famiglia, le persone, gli amici e la loro quotidianità sono al centro dei tuoi romanzi. Come hai vissuto questo periodo di quarantena forzata con la tua famiglia?
E’ stata un’esperienza imprevista e surreale, ma così giovani come sono ‘i miei nani’ l’hanno affrontata come una nuova avventura, non come qualcosa di assurdo. Il più grande ha subito maggiormente la limitazione delle attività, sia scolastiche che extra, il basket, la batteria… il piccolo invece si è ricavato una sua dimensione di relativa sicurezza fra video-lezioni e giochini, fosse per lui starebbe chiuso in casa anche ora. Noi adulti invece diciamo che l’abbiamo portata avanti come potevamo, consapevoli che ora tutto deve essere ricalibrato. Ci siamo goduti un poco, ricompattandola, quell’intimità famigliare che prima avevamo dilatato.  

- “Tutti i personaggi, tranne uno, esistono nella realtà. I fatti che li coinvolgono invece sono completamente frutto del mio bisogno di creare intrecci, talvolta surreali, temo…”
Questo è quello che si legge tra i ringraziamenti a margine del romanzo “La piena “. Tra i protagonisti dei tuoi lavori non ci sono né commissari, né supereroi, ma ci sono personaggi che potremmo incrociare per strada o di cui potremmo condividere l’amicizia da tanto sono normali. Cosa ti spinge a scrivere della realtà che vedi e che vivi?
Stephen King nel suo On Writing scrive che ‘non basta scrivere solo di ciò che si conosce bene’. Che in questo modo un idraulico potrebbe narrare solo di tubature e intasamenti. Concordo. Bisogna dare un qualcosa in più. Ma anche il Re dell’Horror poi aggiunge che però se raccontando di tubature e intasamenti esce fuori anche qualche altra sfumatura dell’anima multiforme dell’autore, ecco che anche la normalità acquista un sapore diverso. Io amo raccontare periferia e working-class, perché quello è il mio campo da gioco. Ciò non significa che se trovo chiavi espressive più complesse io non cerchi di sfruttarle. L’ironia, il surreale, l’inaspettato, sono elementi che mi aiutano a descrivere come in una fotografia filtrata una realtà che conosco bene.

- “8:00 Balconi esterni sul retro del caseggiato Ghisleri, terza palazzina, scala B. Una colonna di piattaforme scrostate e impilate una sopra l’altra. Unici segnali di vita, il verde dei gerani alla ringhiera della vedova e il rumore della ventola del condizionatore al sesto piano, i signori Barignano. Anche le gocce di condensa, che dai tubi di scarico di quel mostro anteguerra scivolano sotto, sul balcone del quinto, emettono un tonfo che rimbomba. Un’eco rivelatrice.
Il cielo su Cremona è un manto luminoso e privo di nubi e Favini è all’aria aperta, al secondo piano. È la prima sigaretta della giornata. È in pigiama ed espadrillas, ancora mezzo assonnato. Si sente giù di corda, da giorni insegue un’ispirazione che non trova, il contratto con la Sa.Ma. lo mette con le spalle al muro, ma non sta cavando un ragno dal buco.”
‘Rachmaninov al secondo piano' è un breve racconto che recentemente hai postato su cremonapalloza.org e racconta di una giornata ai tempi di lockdown in un condominio in via Ghisleri a Cremona. Nei tuoi scritti riesci, attraverso i protagonisti e le loro vicende, ad alternare momenti di serietà e drammaticità a momenti surreali ed esilaranti. Quanto è importante non prendersi troppo sul serio?
E’ la base. Molto spesso racconti vicende di persone reali, a volte persone che frequenti. E’ necessario che tu riesca a non estremizzare troppo le caratteristiche che in loro ti hanno colpito. Se sei il primo a sdrammatizzare sulle tue fragilità allora puoi gestire anche tutto il resto, comprese le fragilità dei tuoi personaggi.

- Da Cremona a Meterra’, luogo fantastico ed incantato sotto i carruggi di Genova, in cui hai ambientato il romanzo fantasy “Meterra, il destino in una biglia”. E’ la storia di Mimi’ e del suo criceto Caramello, di Diafani, di Bleurl e di bande di ragazzini che si giocano il destino del mondo con le biglie. Come è nata l’idea di questa storia fantastica?
Ascoltando le canzoni di Fabrizio De Andrè, tornando con la memoria alle giornate senza fine dei primi dieci anni passate nel cortile condominiale a giocare a biglie fra i sassi e i tombini, con ben fissata nella memoria la copertina gialla delle edizioni scolastiche Sansoni del libro ‘Un sacchetto di biglie’ di Joseph Joffo… tante suggestioni insomma, mischiate al mio latente desiderio di costruire avventura fantastica.


-Oltre alla musica ed al cinema nei tuoi romanzi non manca mai un richiamo alla tua passione per il calcio ed in modo particolare in alcuni tuoi racconti, come ad esempio '62 MINUTO (il chupa-chupa al tamarindo)’ che è la cronaca a tratti surreale, di 10 minuti di follia calcistica del ‘magico’ Alviero Chiorri, così come in “una domenica allo Zini” (dell’antologia "Ogni maledetta domenica. Otto storie di calcio" pubblicata nel 2010 da Minimum Fax). Il calcio “è tornato” ma le curve -che definisci come complessi microcosmi- restano vuote e silenziose. Come vivi questa continuazione di quarantena?
Lo viviamo con lo straniamento inevitabile che consegue alla situazione surreale che stiamo attraversando. Manca il calcio giocato e vissuto attraverso la complessità di una curva bardata con i colori sociali; quello visto attraverso lo schermo, dentro stadi deserti e nel quale senti addirittura i consigli dei due allenatori ai giocatori, sembra più una sessione di allenamento che una sfida. Manca la sensazione di sudare assieme ai giocatori in campo. Ma è inutile fasciarsi la testa, bisogna accettare questa strada. Nella certezza che presto o tardi si tornerà a perdere la voce sugli spalti.


- Nel giugno 2016 a Cremona prende il via la prima edizione del PAF ‘Porte Aperte Festival’. Insieme ad altri ‘quattro amici storici’ avete fondato l’associazione che organizza questa rassegna culturale itinerante -tra parchi, giardini, chiese sconsacrate, piazze e chioschi- e che per un fine settimana di inizio estate, anima la nostra città attraverso eventi in cui si alternano scrittori, musicisti, illustratori, reading letterari, workshop,’ tavole rotonde’ e mostre. Una manifestazione che negli anni ha portato a Cremona artisti di grande spessore, decine di migliaia di persone ad incontrarli e tantissimi giovani volontari che a vederli regalano sempre un’emozione ed un valore unico e particolare. L’edizione 2020 è stata ovviamente rimandata. Quanto mancherà a Cremona questo evento e quando pensate di poterlo riproporre?

Mancherà senz’altro l’impatto emozionale e aggregante della manifestazione nella formula completa nella quale è stata concepita e si è sviluppata negli ultimi 4 anni: i 60 eventi, le decine di luoghi per gli incontri fra cortili, piazze, giardini e chiostri. Ma la riproporremo anche questa estate, in una versione naturalmente ridotta eppure sempre densa di qualità e di possibilità di approfondimento. Cremona ha seguito la nascita e la crescita del PAF, ha contribuito a tutto ciò, ci sembrava giusto restituire in cambio quantomeno un segnale: noi ci siamo e lavoriamo per continuare questo percorso senza interruzioni, mantenendo saldo e dritto il timone. Per fortuna l’Amministrazione Comunale e il Centro Fumetto ‘Andrea Pazienza’, nostri partner e primi sostenitori, ritengono che il lavoro svolto sia stato buono e dunque ripongono ancora fiducia nel nostro gruppo. A mantenere alto lo spirito e la voglia sia l’entusiasmo nostro sia il sostegno delle nuove leve, tutti ragazzi volontari dalle qualità importanti, che ci hanno sempre aiutato nella preparazione e nello svolgimento della manifestazione e che ora stanno iniziando anche a condividere con noi 5 curatori dinamiche organizzative a un livello più alto. Il festival è in buone mani anche in chiave prospettica. ;-)


- Un pò per curiosità ed un pò perché è sempre bello vedere nelle vetrine delle librerie scritti di autori cremonesi: stai lavorando ad un nuovo romanzo?
Macché. Alcune idee ci sono, sì, lo ammetto. Ma tempo pochino. Però so che, quando comincerò, poi mi ci butterò a capofitto. Sono il primo ad attendere quel momento, credimi.

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Lettera d’amore a Cremona” di Andrea Cisi

"Le anatre percorrevano la ciclabile. I piccoli perfettamente in fila, la madre davanti. Indisturbate. Serene. Padrone del sentiero lungo il naviglio.
Elena dorme.
La testa poggiata sulla scrivania. Ore 6 del mattino.
I guanti in lattice ancora indossati, la mascherina sul viso, il camice stretto attorno al corpo stremato, abbandonato sulla sedia, dove pensava di fermarsi solo un istante, per riposare, e scrivere.
Elena aveva appena finito di piangere, a dirotto, come una bambina. Impotente, dopo l’ennesimo turno di dieci ore. Esausta, incapace di vedere una fine. Il sonno l’aveva colta lì, senza che potesse più evitarlo. A pochi centimetri dai suoi capelli raccolti, strumento di apertura verso il mondo, una tastiera. Non era riuscita a terminare la lettera. A metà testo era crollata.
Elena sta sognando, ora.
Di lei e di lui, in bicicletta sull’argine alto verso Bosco ex-Parmigiano, a raggiungere l’Osteria del Mento sotto il sole caldo di aprile, respirando l’odore di fango del fiume poco distante, incrociando Stefano e Monia e le loro bambine a passeggio fuori dal borgo, sfrecciando nel fumo che si alza dalle griglie nei giardini sotto il dosso.
Di quando in auto di sera, coi finestrini giù e Jovanotti a tutto volume, le amiche la portavano a ballare oltre il ponte di ferro, nella campagna piacentina, immersi nel profumo d’aglio dei campi e nel canto dei grilli nascosti nell’ortica fresca dei fossi, aspettando sedute sul muretto di pietre smosse che arrivassero gli altri amici.
Di piazza del Duomo gremita di gente a luglio, ad attendere l’inizio del concerto, sotto il grande palco e all’ombra della maestosità della cattedrale, tutti appiccicati a sudarsi addosso, spingendo le transenne col sorriso, che Cremona mica ancora s’è abituata a questo tipo di eventi, ma da qualche anno ci sono, da qualche anno a lei sembra di essere non più in un villaggio, ma in una metropoli piena di vita e di stranieri.
Delle traversate in barca con lui sul grande fiume, dentro un volo basso di rondini, lasciando la passeggiata delle società canottieri per deviare di taglio nella corrente, approdando su qualche spiaggione del lato destro per fare pic-nic al sole. Da lì ascoltare il ronzio basso dei natanti e il cigolio degli scalmi con un rosso frizzante in un bicchiere di plastica, sentendosi addosso lo sforzo delle pagaiate e gli ordini sbuffati fuori con grinta dagli atleti in allenamento sull’acqua.
Sogna di quando Carla torna da scuola a piedi, raggiante nei suoi 8 anni, la felpa legata in vita, lo zaino più grande di lei, a farsi spazio a gomitate nella calca degli altri bambini, emozionata per quel bel voto, pronta a raccontare, pronta a pranzare guardando l’ennesima puntata de La Casa nella Prateria sul canale 27, dovendo dare ragione alla mamma che le aveva sempre detto che, anche se era un vecchio telefilm, alla lunga sarebbe piaciuto anche a lei.
«Ma perché?» le chiedeva all’inizio.
«Perché non si può non emozionarsi alle vicende di Walnut Grove e della famiglia Ingalls» rispondeva. «E anche i tuoi nonni vivevano così, nel paesino fuori città. Se chiedi a nonna Laura di raccontare qualche episodio della sua infanzia lo capisci. Non ti immagini neppure che avventure hanno vissuto.»
Sogna del suo Paolo, Elena. Sul campo di calcio, con quell’allenatore che lo tratta come un bambino più grande dei suoi 12 anni, coi suoi compagni sempre addosso, sempre in competizione, per lei è sempre un bambino. Paolo che da grande vuole fare il fabbro, come quello che ferra i cavalli e che ogni anno vedono al palio di Isola Dovarese, a inizio settembre, che nella calca dei presenti in costume d’epoca lo chiama sempre dentro, sotto la tettoia, e gli fa provare a battere il ferro incandescente, a immergerlo nell’acqua per raffreddarlo.
Elena non muove un muscolo, su quella scrivania. Un dito, un respiro. Così stanca. Così al limite. Sogna le voci, dietro la porta della camera da letto, dopo un turno di quelli normali, di otto ore, un sabato mattina. Lui che prepara la colazione, loro che ridono, si rincorrono, escono sul balcone che dà su corso Matteotti, sotto di loro il via vai delle auto che raggiungono il centro storico nel giorno di mercato, il vociare dei negozianti, i camerieri che prendono gentili le ordinazioni nei baretti sul corso. Si alza, apre uno spiraglio della porta, osserva la normalità della vita in quel taglio di luce che arriva dalla finestra…
…e tutto, nel sogno, scompare.
In senso figurativo la parola ‘sogno’ indica Speranza, o desiderio vano e inconsistente. Ma Elena non lo può sapere, che ciò che sta vedendo al di qua degli occhi chiusi si è ridotto a termine di ‘speranza’. Lei vede ancora le giornate migliori, quelle in cui non c’era la paura, quelle piene di cose da fare, tutte diverse. Elena non riesce a capire, adesso, al di qua degli occhi chiusi, se la Cremona che sta guardando è quella di ieri o è quella di domani.
Elena allora apre gli occhi. Ma non si muove. È in reparto. Vede la tastiera, respira a fondo. Ma non si muove. Continua il sogno, ma questa volta è ad occhi aperti.
Guarda la parete con la lavagnetta dei turni, tutti incastrati, rifatti, accavallati per le emergenze, per i cambi improvvisi, per una rincorsa continua al non cedere. Ritrova nei pensieri quello che un fabbro giapponese raccontava a Marco Polo nel vecchio sceneggiato girato da Giuliano Montaldo nel 1982, non sa perché le torni in mente ma aveva adorato quel vecchio sceneggiato, la sua maestra lo aveva imposto quando era alle elementari, avevano fatto una ricerca. Per lei quell’esotico era stato ciò che per Carla e Paolo sono oggi le saghe di Guerre Stellari o Il Signore degli Anelli, la fantasia, il mistero, l’ignoto, il desiderio di un ‘ritorno’ a qualcosa, a qualcuno, una città, una normalità… Il Gran Khan vuole invadere le isole del Giappone, sterminare i loro pirati, estendere il suo regno, ma questo fabbro giapponese cieco avvisa Marco: «La mia terra è separata da invidie, lotte per la dinastia, per la terra… ma siamo come le dita di questa mano: separati siamo tutti diversi, uniti stretti diventiamo un pugno!»
‘Un pugno…’
Le anatre che attraversano indisturbate la ciclabile. Forse le ha viste, si ricorda, giusto un paio di mattine fa, dalla finestra del settimo piano dell’ospedale, fumando una sigaretta, guardando il suo quartiere tranquillo, decine di metri sotto. Le radici degli ippocastani che spaccano il cemento, l’erba alta che invade il campo di calcio della Beata Vergine, i piccioni a stormi… le anatre che passeggiano indisturbate… la natura si è ripresa il suo spazio mentre Elena ad occhi aperti sogna quel pugno.
Forse ho sognato anche le anatre… pensa.
Il sogno, delicatamente come una carezza, si trasforma in desiderio.
In una città profondamente diversa da quella ricordata, deserta, assolata e silenziosa, sogna tutti i colleghi che come lei, forse, da qualche altra parte nella struttura, in qualche altro reparto, hanno avuto un crollo come il suo. Tutti quelli che come lei hanno pianto a dirotto, come bambini. Sogna tutti quegli amici che ha implorato di restare chiusi in casa e lo hanno fatto. Sogna i volontari delle cooperative e delle associazioni, e sono centinaia, che con una mascherina e un paio di guanti si disperdono nella città per assistere chi ha più bisogno, sogna l’aiuto della comunità cinese che manda bancali di mascherine, sogna il piccolo ma enorme sostegno economico della cittadina tedesca di Füssen, sogna l’ospedale da campo americano della Samaritan’s Purse e il DC9 che li ha trasportati qui, sogna quella brava donna che in pieno centro cuce mascherine e avvisa con un biglietto sul citofono che chi ne ha bisogno non ha che da suonare al cuoricino rosso posto sul bottone e lei gliele recapiterà dal cielo del balcone, dopo pochi minuti, confezionate bene, con amore…
Un suono si spande nell’aria. Elena lo sente, un suono tagliente eppure ammaliante. Apre forte gli occhi, riprende a muoversi. Si alza. Al lavandino si butta dell’acqua fresca sugli occhi, sul collo, sulla fronte. Ripete il rito della vestizione.
Il suono si fa più corposo, riempie il cielo.
Esce sul corridoio. Ida e numerose altre colleghe sono già alle finestre, osservano Cremona da quel ghetto di sopravvivenza, di speranza. Indicano una piccola figura sul tetto di una delle palazzine dell’ospedale. È una donna, vestita di rosso. Sta suonando un violino, bellissima, sicura. La musica malinconica di Gabriel’s Oboe del maestro Morricone attraversa il cielo basso della città, che si ferma, immobile, tutta, ad ascoltare questa magnificenza.
Elena immagina il suono risalire via Giuseppina, invisibile, sfiorare i tetti delle case, i campanili delle chiese, San Sigismondo, San Sebastiano, San Michele, Sant’Abbondio… avvolgere la torre-minareto dell’ex-filanda Bertarelli, infilarsi nei pertugi del Museo Archeologico di San Lorenzo, impattare la colonna di muratura del Torrazzo, risalire, giungere in cima e lì, come un’esplosione, spandersi sull’intera città, stringendo ancora più a fondo i suoi abitanti in quel pugno…
«Mi sono addormentata» dice colpevole.
«E che male c’è?» le risponde Ida.
«Stavo scrivendo una lettera al computer, per i miei bimbi.»
«I tuoi bimbi? Perché?»
«Non lo so. Mi andava. Come una specie di lettera d’amore.»
«Per loro?»
«No. Per… la città. Questa città.»
«E invece hai dormito. Forse è meglio.»
«Sognavo una fila di anatre…» dice pensierosa.
Ida la guarda comprensiva. Toglie un lembo di mascherina e le mostra un sorriso. Anche Elena sorride, finalmente.
«Ora di tornare al lavoro.»
«Sì.»"

L’antologia “Reboot” è disponibile sul sito di ‘bookabook’ e su Amazon store. I proventi delle vendite verranno devoluti in beneficenza al Comune di Milano.

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'62 MINUTO (il chupa-chupa al tamarindo)’

‘Una domenica allo Zini’ (dell’antologia "Ogni maledetta domenica. Otto storie di calcio")

‘Rachmaninov al secondo piano’

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La Quinta T è una iniziativa editoriale di
Alexandro Deblis Everet Editore
Via Solferino, 4 - Cremona
Direttore Responsabile: Simone Manini
Direttore Editoriale: Fabio Tumminello
Registrazione al Tribunale di Cremona
n°616/2019 del 26 marzo 2019
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