Voglia di Arte

La luce racconta una tragedia: Francisco Goya e il "3 maggio 1808"

È stato il codardo più coraggioso di sempre. Politicamente non si è mai schierato, non ha mai provocato né irritato nessuno, ha sempre accontentato tutti, ritratto reali, napoleonici, inquisitori. Ma, nella sua "pittura nera" si è, invece, dedicato agli umili, agli oppressi, ai disperati. Era straordinariamente coraggioso quando si trattava di dipingere.

MILOS FORMAN (Su francisco Goya)

Nel 1814 Francesco Goya, eccezionale pittore spagnolo, dipinge un quadro comunemente chiamato con un nome curioso: “3 maggio 1808”. E’ una data, un titolo anomalo per un dipinto, ma questa data ha un forte valore simbolico. Le truppe napoleoniche, infatti, in quel periodo stavano occupando la Spagna e in quei giorni repressero nel sangue le ribellioni spagnole, lasciando molti morti sul terreno. Goya dipinge nel 1814: i ricordi sono recenti e vivi, le passioni e gli odi assolutamente attuali.

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FRANCISCO GOYA

Goya racconta quello che ha visto accadere coi suoi occhi nel suo paese, racconta la realtà. Usa uno stile veloce, con pennellate rapide che contribuiscono ad aumentare la drammaticità e i contrasti violenti. Sullo sfondo si vede il profilo di Madrid che dà una ubicazione agli eventi: il profilo della città è però avvolto nella notte, appena abbozzato, in secondo piano, quasi un fondale teatrale. Goya infatti non vuole raccontare una storia ma un momento umano carico di dolore e di emozione e che va oltre il singolo evento per diventare una rappresentazione universale di guerra, ingiustizia, sofferenza. La Spagna diventa il simbolo della condizione umana.

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IL DETTAGLIO DEL PLOTONE DI ESECUZIONE

I soldati francesi che fucilano i prigionieri non a caso sono ripresi di spalle: non vediamo i loro volti e le loro emozioni, non sappiamo chi sono. Sono degli esecutori che eseguono ordini nel nome della ragione di stato e lo fanno senza fiatare, decisi e solidi come la loro posa sul terreno. 

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IL DETTAGLIO DEI CONDANNATI

Davanti a una collinetta rischiarata dalla luce di una lanterna usata dai soldati vediamo i prigionieri. Tutti sono vestiti in modo povero: non è gente ricca ma gente che ha già dovuto affrontare tanti problemi e ora affronta anche questo. Alcuni sono già morti e Goya non risparmia il dettaglio del sangue, anzi abbonda a rappresentare la morte senza sconti. Un francescano prega per loro ma appare impotente e impaurito dal destino che lo attende a sua volta, simbolo della fede religiosa che non riesce a fermare il male. Gli altri si coprono quasi tutti il volto per non vedere, atterriti da uno spettacolo impressionante. Uno invece guarda i francesi con sfida, quasi invitandoli a sparare. Abbiamo l’intero campionario delle reazioni possibili, lo spettore di tutte le emozioni che gli uomini possono provare in una situazione del genere.

C’è però ancora un prigioniero, il più importante. E’ al centro, le braccia protese e in ginocchio, implorante una pietà e una comprensione che non arriveranno. Ha una ferita su una mano: un particolare significativo, perché unito alla posa del suo corpo ci richiama alla memoria le immagini della crocifissione. Questo prigioniero, richiamando la storia di Gesù, paga per tutti i peccati col sacrificio della vita, vittima innocente delle circostanze e dei disvalori umani. 

C’è però una protagonista ancora più importante di questo prigioniero, collocato al centro della composizione: la luce. E’ la luce a definire la rappresentazione. Il quadro intorno al prigioniero è buio, spento, freddo. Ci trasmette sensazioni inquietanti. Dove c’è il prigioniero c’è luce invece. La luce ci porta nel luogo dove dobbiamo guardare, fa capire che cosa conta: la tragedia è illuminata dalla luce, tutto il resto è contorno, è coreografia. L’ingiustizia che si consuma, la sofferenza che questi uomini provano, deve essere messa al centro: la luce orienta il nostro sguardo su una emozione umana, ci fa capire che oltre la storia ci sono gli uomini, vittime degli eventi.

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