Voglia di Cinema

Il monologo de "Il Divo": il potere fra controllo e senso di colpa da reprimere

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Premessa fondamentale: questa è una pagina di cinema, non di politica, l’analisi che segue riguarda la costruzione di una scena e l’analisi di un personaggio di un film, non ho alcuna intenzione di rispondere a commenti e domande politiche e non lo farò. Ho voglia di parlare di cinema, non di politica. Immaginate che il protagonista si chiami X e che si parli di uno stato immaginario!

Nota metodologica: vi metto a fine post il testo del monologo per comodità.

Iniziamo!

LA SCENA

Buio. Una stanza di un palazzo antico, elegante ma tetra, una porta, un’altra porta. C’è oscurità, non vediamo, non sappiamo.

Incominciamo a muoverci verso la stanza sul fondo e una luce si accende: una figura si illumina, una sagoma che non possiamo non riconoscere, un simbolo.

Veste elegante, formalmente impeccabile come sempre. Si volta per un breve momento e alle sue spalle la tenda forma una specie di sipario: si va in scena, il protagonista sta per esibirsi

Cambio di scena. Altra stanza di un palazzo antico, elegante, oscuro, impenetrabile: le stanze del potere.

Un trono, sobrio, nel mezzo. Seduto, nell’oscurità, lui. Un gesto tradisce un dolore: quel mal di testa ricorrente, simbolo dell’emotività soppressa che cerca sfogo, dei sensi di colpa, cose che il potere non può permettersi e che vanno contenute, soppresse, sedate, ma che non si possono cancellare, simbolo di una umanità residua insopprimibile e di un dolore che nel profondo c’è, ma non gli viene consentito di emergere.

Il protagonista è pronto: immobile, perché il corpo deve essere sotto controllo, come la società deve essere sotto controllo, con le mani giunte come se fosse in preghiera, perché lui ha una missione, c’è qualcosa di religioso in ciò che deve per forza fare nella sua concezione

Inizia a parlare e si rivolge a Livia: il suo amore, puro, innocente, che non sa e non deve sapere. L’angolo di innocenza della sua vita.

Ricorda quando l’ha conosciuta, in un cimitero: vediamo lunghe file di croci, presagio di una scia di sangue che è nel destino del protagonista

Ha scelto quel luogo singolare, lo dice lui, perché qualcosa dentro di lui sa che la sua vita sarà segnata dal sangue

Inizia la confessione, ma è una confessione a metà. Subito si dice che sono malefatte, ma doverose per il bene del paese

C’è però una frase chiave: per troppi anni il potere sono stato io, quello che lui ha fatto non lo ha fatto con entusiasmo ma per dovere, gli pesa e gli peserà ma bisogna reprimere il dolore perché non possiamo e non dobbiamo permettere che la missione fallisca

La contraddizione mostruosa: fare il male per perpetuare il bene, è questo l’orrendo segreto che si annida nel fondo della sua anima. Snocciola i dati, con precisione: c’è freddezza, come se fossero numeri, ma c’è anche precisione, segno che ognuno di quei numeri è un ago conficcato nell’anima. Il dolore c’è, ma
represso perché non possiamo e non dobbiamo lasciargli sfogo

Il monologo prende ritmo, più veloce, c’è impeto, perché sgorga dal profondo, ma c’è controllo, il corpo resta immobile: non possiamo e non dobbiamo perdere il controllo.

Confessa la colpa ma non serve: lo sappiamo tutti in realtà, e non sarà punita e questa colpa serve per un bene maggiore.

Spiega i motivi, la chiama la strategia della sopravvivenza perché sa che i nomi contano, la comunicazione conta, lo stesso evento con un nome diverso ha un peso diverso

Snocciola i nomi delle vittime e lo fa con affetto, il caro Aldo, sa che erano persone buone, persone nobili, amanti della patria e della verità ma la verità è la fine del mondo, non possiamo e non dobbiamo lasciargli scoperchiare il potere

Tutto sempre immobile, sempre in controllo ma con foga

La foga rallenta, perché siamo al finale e alla frase più importante. Una cosa giusta, un mandato. Nel nome di dio, amando Dio. Perché lui sa che è male, soffre per questo, ma riesce a reprimere il dolore, a comprimerlo nel profondo, a farlo diventare un mal di testa, nel nome di dio, in nome di un bene superiore, perché Dio lo sa e “lo so anche io”: assiso in trono, tutto sapendo e niente lasciando sapere, antipapa rappresentante in terra di Dio, per compiere una missione più grande

E’ il monologo di Giulio Andreotti: un uomo che tutto controlla, a cominciare dal suo corpo, che vive in stanze eleganti ma immerse nell’oscurità, inappuntabile per eleganza e forma, intelligente, in missione per conto di Dio. Lo fa con un bene superiore, nella sua ottica, sacrificando se stesso perché nel profondo il senso di colpa c’è e non può essere cancellato. Il sangue è necessario per la sua missione, sa però che non può essere lavato: accetta, per troppi lunghi pesanti anni, di sacrificarsi per un bene superiore, ma sa che è giusto. Questa è la sua visione: rende una confessione che non è una confessione ma una rivendicazione, non è un imputato ma un re assiso in trono

Ecco il monologo:

Livia, sono gli occhi tuoi pieni che mi hanno folgorato un pomeriggio andato al cimitero del Verano. Si passeggiava, io scelsi quel luogo singolare per chiederti in sposa – ti ricordi? Sì, lo so, ti ricordi. Gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sapevano, non sanno e non sapranno, non hanno idea. Non hanno idea delle malefatte che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del Paese. Per troppi anni il potere sono stato io. La mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. La contraddizione mostruosa che fa di me un uomo cinico e indecifrabile anche per te, gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sanno la responsabilità. La responsabilità diretta o indiretta per tutte le stragi avvenute in Italia dal 1969 al 1984, e che hanno avuto per la precisione 236 morti e 817 feriti. A tutti i familiari delle vittime io dico: sì, confesso. Confesso: è stata anche per mia colpa, per mia colpa, per mia grandissima colpa. Questo dico anche se non serve. Lo stragismo per destabilizzare il Paese, provocare terrore, per isolare le parti politiche estreme e rafforzare i partiti di Centro come la Democrazia Cristiana l'hanno definita "Strategia della Tensione" – sarebbe più corretto dire "Strategia della Sopravvivenza". Roberto, Michele, Giorgio, Carlo Alberto, Giovanni, Mino, il caro Aldo, per vocazione o per necessità ma tutti irriducibili amanti della verità. Tutte bombe pronte ad esplodere che sono state disinnescate col silenzio finale. Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta. Abbiamo un mandato, noi. Un mandato divino. Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa e lo so anch'io.

Ps una scena potente, grazie a un attore straordinario come Toni Servillo, perfetto, meraviglioso, inappuntabile

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