“Arrivederci ragazzi” ha una parola chiave: delicatezza. Questo film di fine anni ottanta di Louis Malle è un capolavoro perché riesce ad affrontare temi come l’adolescenza, la scoperta della vita e dell’amicizia ma anche del dolore e della guerra con accenti malinconici ma sempre delicatissimi, senza mai cedere alla retorica.
Julien è un ragazzo di buona famiglia che viene mandato in un collegio francese durante la guerra per istruirsi e restare lontano dalla violenza del conflitto. E’ ancora un innocente, deve ancora scoprire il mondo, vive la sua infanzia. Julien è abituato infatti all’ambiente benestante della sua famiglia e non conosce fame e freddo, sofferenza e violenza come altri ragazzi, ma si annoia.
Un giorno arriva un ragazzo nuovo che sembra nascondere dei segreti e accende la sua curiosità. Scoprirà che i religiosi del collegio, cristiani, lo ospitano per proteggerlo: è ebreo e si nasconde dalla Gestapo. Si chiama Jean, un nome falso. Parla poco ma quando lo fa dice cose intelligenti, per Julien diventa subito una fonte di attrattiva. Per il novanta per cento del film la guerra resta lontana, sullo sfondo. Noi seguiamo invece Julien mentre cresce la sua amicizia con Jean. Vivono una vita quasi banale fatta di studio, gite, piccole disavventure, una vita da adolescenti intessuta di piccole cose che però fanno scoprire il significato di amicizia, cameratismo, ingiustizia, insicurezze. Jean è intelligente, ama la musica e i libri e Julien scopre le sue qualità.
Una gita nei boschi, un gioco che non va nel modo previsto diventa l’occasione per far crescere la loro amicizia ma anche per scoprire la paura. E’ una storia di maturazione adolescenziale ma appunto raccontata con delicatezza e tanta sincerità, Louis quasi accarezza i suoi ragazzi.
Verso la fine del film dopo una soffiata la Gestapo entra nella scuola e si porta via Jean e altri ragazzi oltre ai religiosi che gestivano il collegio. Julien scopre, dopo il lato affascinante, il lato orrendo della vita: assiste impotente al compimento del destino del suo amico che viene portato via per finire nei campi di concentramento. Julien è sbigottito: è la reazione di un adolescente che perde la sua innocenza di fronte a guerra e razzismo ma anche di qualsiasi adolescente che scopra l’ingiustizia. Non hai armi per reagire, soffri, è la fine dell’infanzia: l’innocenza che aveva Julien a inizio film, sparisce di fronte alla terribile realtà che lo circonda. E’ un percorso che tutti gli adolescenti devono compiere ed è doloroso: per Julien più che per altri, ma è la storia di tutti, ciascuno a suo modo (quando scopri la vera sofferenza, la tua infanzia è finita).
Padre Jean, che per Julien è una figura paterna, autorevole, il religioso che ha nascosto Jean e che si avvia con lui ai campi, gli dà l’ultima lezione: saluta i suoi ragazzi mentre i nazisti lo portano via con un semplice “arrivederci ragazzi”.
Un saluto banale, quello di sempre, come se stesse partendo per un semplice viaggio, ricambiato dai ragazzi, che pure come il religioso sanno che si tratta di un addio: di fronte alla massima ingiustizia, dimostra la dignità di chi sa di essere nel giusto e la serenità di chi non cede alla violenza, non nell’anima. E’ l’ultima lezione del maestro all’allievo, non più bambino ma ragazzo, consapevole che nel mondo c’è tanta bellezza ma anche tanto orrore