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“Salvate il soldato Ryan” è ancora oggi un film durissimo ed esplicito nel mostrare l’orrore della guerra. La scena iniziale non risparmia davvero nulla ed è famosissima, ma ci sono altre scene sparse nel film che sono molto esplicite. Spielberg non fa sconti, per una precisa scelta.

Eppure, c’è uno spazio protetto nel film. Lo delinea bene il capitano Miller: quando parla della sua vita con la moglie, è riservatissimo, anzi praticamente non ne parla se non per brevi accenni e in situazioni in cui si rende conto che per creare un legame con i suoi soldati, deve concedere qualcosa di quello spazio.

Il punto è che quello spazio privato è il suo angolo di pace, uno spazio puro, innocente, cui aggrapparsi di fronte agli orrori che lo sconvolgono tutti i giorni. Non può aprirsi su quello spazio perché sarebbe come violarne l’innocenza e lui ha bisogno di immergersi in quell’innocenza per mantenere viva la sua anima (e Spielberg non lo mostra: quando Miller ne parla, noi non vediamo quello spazio ma sentiamo, immaginiamo e basta)

Cambiamo scena. La madre dei Ryan deve essere avvisata della tragedia che ha investito la sua famiglia

Ci viene mostrata una fattoria nel sole, un panorama bucolico e pacifico, con una sola strada sterrata su cui corre una automobile militare. Una minaccia scura che si allunga su un panorama pastello in stile Hopperiano…

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Stacco. Una madre, rappresentata come la potremmo immaginare negli anni quaranta in quelle zone degli Stati Uniti: viso dolce, forme appunto “materne”, vestita da chi ha come primo compito mandare avanti casa, mentre svolge le mansioni casalinghe.

Sulla porta uno stendardo con quattro stelle che ci ricorda che quattro figli di quella casa sono in guerra: li vediamo anche nelle foto sparse per casa, abbracciati insieme come insieme sono cresciuti. Sono assenti, ma foto e stendardo ci ricordano che sono nati in quella casa, che la madre li aspetta, che in qualche modo cerca di trattenerli nel suo grembo. Chissà quante volte pensa a loro; chissà quanta paura ha di non vederli mai più.

Improvvisamente, alza la testa e vede in lontananza una automobile: una scena rara da quelle parti. Si ferma, subito paralizzata: paura e lucidità si rincorrono, ha già capito cosa sta per succedere ma vorrebbe scappare, spera che qualcosa succeda, che cambi strada, che ci sia una scappatoia.

Si muove lentamente, meccanicamente, come se corpo e anima si fossero scissi: il terrore si fa corpo. Ha ancora un lumicino di speranza, magari è ferito (ancora non sa che il soggetto purtroppo non è uno solo dei figli)…

Quando però scende un prete dall’auto ogni minima speranza si sgretola: si accascia, le forze non la reggono prima ancora che parlino perché ha già capito…

Ecco, Spielberg costruisce un mondo remoto, privato, innocente, dove la guerra è un rumore lontano: è il luogo degli affetti, dove trovare conforto nella quotidianità dei gesti, esorcizzando la paura che il conflitto diventi parte integrante di quel piccolo mondo (ma foto e stendardo mostrano che è già entrato in quel mondo)…

Qui Spielberg allude, non mostra esplicitamente (non sentiamo l’annuncio della notizia, lo immaginiamo e basta), nasconde, in un certo senso come il capitano Miller: è una forma di delicatezza e di rispetto per il dolore delle madri che vissero quell’esperienza.

La madre del film, come i soldati, infatti, sono un simbolo: Spielberg racconta una storia singola per raccontare una storia collettiva che travolse tante famiglie.

Spielberg ci mostra la devastazione dei corpi ma concede uno spazio di rispetto per la devastazione delle anime: un omaggio di rispetto e un modo per far capire che nella devastazione, spesso, sono le piccole cose che ci permettono di conservare la nostra umanità, nell’affrontare l’orrore