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Ballata dell'amore cieco: Abdon Porte

Abdon Porte jugaba por la camiseta

Abdon Porte giocava per la maglia. Davvero. Non nel senso di Ibra, che deve aver vissuto dieci infanzie diverse con dieci squadre del cuore differenti. Terrapiattisti, altro che Australia! Per Abdon il mondo finiva un passo oltre il prato verde del Grand Parque Central, tempio del Nacional de Montevideo. Più in là? Il vuoto, il baratro, l'abisso. La fine.

Montevideo, primissimo Novecento. Il Club Nacional de Futbol vive una scissione. La componente élitaria della società si allontana, contraria alla decisione di aprire le porte a giocatori di ogni estrazione sociale. Niente più ostacoli, tra una camiseta roja-azul-blanca, colori della bandiera d'Artigas, ed i sogni di un giovanissimo fratello di un lattaio. Abdon Porte se le prende, quella camiseta, e non se la toglierà più.

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Volante central, centrocampista centrale. Se serve, pure lateral derecho, terzino destro, o qualunque altro ruolo ci sia da coprire. L'alba di un grande ciclo per i Tricolores: quattro volte campioni d'Uruguay tra i '12 e il '17. Abdon ne assapora ogni istante, da veterano, leader e capitano. Ricordato come una vera leggenda, oggi come allora: fortissimo in campo, esemplare sotto tutti gli aspetti. Di poche parole, ammirato dai compagni, overdose di Garra Charrua

Uno così, i compagni non li abbandona mai. Specie se si sta giocando un derby col Penarol, e non esistono sostituzioni. L'infortunio, al ginocchio, può attendere il 90'. Ma giocarci sopra peggiora la lesione. Un lampo scuote la testa di Abdon: i suoi occhi, forse per la prima volta, intravedono lo spettro di un chiodo a cui potrebbe essere costretto ad appendere gli scarpini. El Capitan è costretto, forse per la prima volta, a prendere coscienza che non potrà giocare in eterno. Terrore.

O campo, o campo. Allenatore, dirigente... Non esiste, per lui. Non ci sono alternative. Quando il fratello Juan gli prospetta un futuro in società, la risposta recide di netto qualsiasi speranza di convincerlo:

No, io il Nacional lo difendo in campo. Se non posso giocare, allora domani stesso mi sparo una pallottola.

5 marzo 1918, Montevideo. Nacional-Charley Solferino 3-1. In serata, qualche celebrazione nella sede del club. Al termine, tutti a casa. Quasi tutti: Porte non torna a casa, quella notte.

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Lo ritrovano il mattino dopo, morto suicida nel suo stadio, proprio nel cerchio di centrocampo. In estrema esasperazione di un gesto folle, si è ucciso con un colpo a ciò che aveva interamente donato ad un'unica fede: il cuore, che da sempre batteva per il Nacional. Di fianco al corpo, oltre alla pistola, una carta, una lettera. Per Josè Maria Delgado, il suo Presidente:

Caro dottor Presidente, abbiate cura di mia madre e della mia sposa. Voi sapete perchè l'ho fatto. Che il Club sia sempre anteposto agli interessi dei singoli! [...] Ora, e sempre, viva il Club Nacional!

Cento anni dopo, Abdon è ancora lì. Ovunque. La sua effige su un murales dai velati tratti cubisti. La tribuna Abdon Porte del Grand Parque Central. Lo storico striscione Por la sangre de Abdon. Come si fa, in fondo, a giudicare scelte così devastanti, a prendere una posizione di fronte ad un suicidio? Giusto limitarsi a tenere viva, vivissima, la fiamma di un amore cieco.

Ai miei occhi limpidi come un addio
lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca
il punto di vista di Dio

Fabrizio De Andrè, Khorakhanè (a forza di essere vento)

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